Una Chiesa vicina alla gente, agli abbandonati, ai dimenticati


Nella Cattedrale di Firenze, sotto il grande affresco dell’Ecce Homo, la Chiesa italiana porta le sue ferite e le sue speranze. Il Papa l’abbraccia e detta la sua linea. Un discorso lunghissimo, ma non astratto. Papa Francesco spazza via i ragionamenti teorici e le parole vuote. Per andare al cuore del Vangelo. Per dire alla Chiesa italiana che testimoniare la fede vuol dire ripartire dai poveri e fuggire il potere. Che essere Chiesa significa camminare insieme pastori e popolo, dialogando anche con chi non la pensa come noi, senza temere il conflitto e senza cercare il proprio interesse. Il papa indica tre atteggiamenti da avere – umiltà, disinteresse e beatitudine – e due tentazioni da fuggire: il pelagianesimo e lo gnosticismo.

«Umiltà, disinteresse, beatitudine», dice Francesco, « dicono qualcosa anche alla Chiesa italiana che oggi si riunisce per camminare insieme in un esempio di sinodalità. Questi tratti ci dicono che non dobbiamo essere ossessionati dal “potere”, anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all’immagine sociale della Chiesa. Se la Chiesa non assume i sentimenti di Gesù, si disorienta, perde il senso. Se li assume, invece, sa essere all’altezza della sua missione. I sentimenti di Gesù ci dicono che una Chiesa che pensa a sé stessa e ai propri interessi sarebbe triste. Le beatitudini, infine, sono lo specchio in cui guardarci, quello che ci permette di sapere se stiamo camminando sul sentiero giusto: è uno specchio che non mente». Ma per non smarrire la rotta bisogna evitare, appunto di cadere nel pelagianesimo, cioè nel cercare nelle strutture e nelle pianificazioni la fiducia e la sicurezza. «La norma dà al pelagiano la sicurezza di sentirsi superiore, di avere un orientamento preciso», dice Francesco in un passaggio più volte interrotto dagli appalusi. «In questo trova la sua forza, non nella leggerezza del soffio dello Spirito. Davanti ai mali o ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative. La dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, sa animare. Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: la dottrina cristiana si chiama Gesù Cristo».

E sullo gnosticismo aggiunge: «Esso porta a confidare nel ragionamento logico e chiaro, il quale però perde la tenerezza della carne del fratello».

Il Papa richiama l’Italia, terra di navigatori, santi e poeti, a non aver paura di prendere il largo, a guardare all’esempio di umiltà dei suoi testimoni, da San Francesco a Filippo Neri, ad attingere alla sua creatività. E invita i pastori a tenere ben saldo il rapporto con il popolo, a camminare in sinodalità, dialogando per il bene comune e non negoziando per avere il proprio pezzo della torta.

«Mi piace una Chiesa italiana inquieta», è uno dei passaggi forti del discorso del Papa, una Chiesa «sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza. Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà. L’umanesimo cristiano che siete chiamati a vivere afferma radicalmente la dignità di ogni persona come Figlio di Dio, stabilisce tra ogni essere umano una fondamentale fraternità, insegna a comprendere il lavoro, ad abitare il creato come casa comune, fornisce ragioni per l’allegria e l’umorismo, anche nel mezzo di una vita tante volte molto dura». Una Chiesa meno ossessionata dal potere e più vicina alla sua gente come quella di don Camillo che dichiarava di conoscere «i suoi parrocchiani uno per uno». E’ l’esempio fatto da papa Bergoglio in visita a Firenze. «La Chiesa italiana – ha detto il Papa – ha grandi santi il cui esempio possono aiutarla a vivere la fede con umiltà, disinteresse e letizia, da Francesco d’Assisi a Filippo Neri. Ma pensiamo anche alla semplicità di personaggi inventati come don Camillo che fa coppia con Peppone. Mi colpisce come nelle storie di Guareschi la preghiera di un buon parroco si unisca alla evidente vicinanza con la gente. Di sé don Camillo diceva: ‘Sono un povero prete di campagna che conosce i suoi parrocchiani uno per uno, li ama, che ne sa i dolori e le gioie, che soffre e sa ridere con loro’. Vicinanza alla gente e preghiera sono la chiave per vivere un umanesimo cristiano popolare, umile, generoso, lieto. Se perdiamo questo contatto con il popolo fedele di Dio perdiamo in umanità e non andiamo da nessuna parte».

Andrea Agostino, Sem.